Tra tutte le superstizioni il malocchio, nelle sue diverse sfaccettature dal fascino alla iettatura, è la credenza tuttora più radicata, forse perché ispirata da un sentimento inconsciamente presente in ogni uomo: l’invidia. Come riconoscere lo iettatore, come si trasmette il malocchio, quali sono i soggetti più colpiti, come ci si protegge? Il libro esplora questo lato oscuro della mente umana, alimentato dalla cultura del sospetto, dà voce a chi ha vissuto questa angoscia, spiega il ricorso a talismani, amuleti, brevi, oggetti e gesti di scaramanzia.
Le piante da frutto guardate come sanno guardarle e riconoscerle i contadini, raccontate con le loro parole, lontano dalle astrazioni e dalle classificazioni di chi le studia ma non vive con loro: questo è il cuore del libro che Federica Riva restituisce dopo una lunga ricerca curata sull’Appennino dove, tra la gente, solidale e partecipe vive e lavora da anni. Qui sta bene ed è rispettoso parlare di ‘antropologia sul campo’, in tutti i sensi.
Straordinario affresco del mondo rurale, scritto attraverso le parole quotidiane e le forme espressive del dialetto: lingua quotidiana, da giocolieri, senza limiti, sfrenata, incontenibile, dove il significato delle parole spesso nasce dal loro suono e le parole hanno una forma quasi materiale, quasi fisica. Difficile da riassumere in un solo genere, questo è un libro di narrativa, ma anche di linguistica, antropologia, psicologia del profondo, soprattutto di memoria, ed è un tributo empatico e vissuto al mondo contadino.
che emerge a sorpresa, che determina una coloritura particolare e, soprattutto, è all’origine della musicalità unica del nostro lessico quotidiano.
Siamo parlati da una lingua segreta da cui ereditiamo il carattere, che dà forma al nostro essere al mondo, che è sostanza dei nostri sogni.
Il mondo contadino in più di 250 ricette.
Attraverso il racconto di un’infanzia trascorsa nella campagna ai piedi dei monti Sibillini, durante gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, e delle ricette che in quel tempo circolavano tra la gente povera di campagna e di paese, questo libro si propone di incoraggiare a riflettere sulla tavola di questo tempo e su noi che oggi mettiamo il cibo al centro della nostra vita, talvolta riproducendo un’immagine gioviale e addomesticata, o persino capovolta, di un passato dal quale abbiamo, però, rimosso la memoria della fame.
Con questa consapevolezza, l’autrice – bambina contadina e testimone che non fa sconti al passato – racconta la cucina contadina tradizionale, descrivendo ciò che sulla tavola c’era e ciò che non c’era (anche quando oggi che ci fosse ci piaccia crederlo): i piatti, le preparazioni e lo spirito e la cultura che permeavano gli uni e le altre.
In una società della penuria e analfabeta – secondo Lisi – gli oggetti sono luoghi di associazioni mentali, letteralmente coperti di pensieri: quei luoghi dove più le associazioni si concentrano più assumono valore emblematico e diventano le punte emergenti di una cultura che ora è sommersa.
‘La chiave e il suo anello’ racconta le rielaborazioni e i cambiamenti di queste sommità nel passaggio alla società tecnologica.
Come il ritorno del lupo spaventa e affascina, stimola a ripercorrere piste segrete nella misteriosa foresta dell’animo umano, così, per secoli, la diffidenza nei confronti del diverso si è tramutata in sgomento e ha scatenato la follia della caccia alle streghe. La paura, istinto primordiale di sopravvivenza, si confronta con la nemica da cui è stata generata: la morte. L’uomo, impossibilitato a vincerla, cerca un compromesso e getta ponti, per mantenere con i defunti un dialogo altrimenti impossibile. La parte oscura della mente elabora le proprie apparizioni e illusioni, popolate da una folla di morti che ritornano in carne o in spirito.
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