… un libro capace di restituire un’umanità pensosa e senziente, che sa dar nome ai tanti diversi modi di amare e a un bisogno trasversale di serenità. (Zena Roncada)
Come su un’altalena, oscillando tra desiderio di clausura e nostalgia di casa, tra la ricerca di una irraggiungibile pienezza e il persistente orrore di scivolare nel vuoto, tra un presente rarefatto come un sogno e i ricordi che dal sogno prendono vita, Emma torna in visita al convento dal quale quindici anni prima era uscita e lascia riemergere – e affronta – emozioni che credeva sopite.
Sullo sfondo Assisi e la presenza senza tempo di Francesco.
Acciughe, Aglio, Aia, Alzheimer… Bacio, Balaustra, Banca, Bar… Cabala, Caffè, Camminare, Campagna… Dazio, Decima, Diavolo, Dio… Eccessi, Eco, Elettroshock, Epochè… Fagioli, Falce messoria, Falò, Farinata… Gabbiani, Gaggìe, Galera, Gelo… e così via, per altre decine e decine di voci, fino a comporre una fitta mappa del Genovesato e dell’Alto Monferrato, tessuta con fili corali di memoria e di emozioni dolciamare.
Sulle colline una donna ricerca nella terra il suo humus perduto, la sua umanità, la sua rivolta. Nel suo diario ritrae la meraviglia per il lavorio delle stagioni. Diventa contadina. Ma l’elegia si distorce in invettiva, l’incanto in disincanto. Della cultura contadina non restano che macerie e la campagna è stata trasformata in una fabbrica a cielo aperto. Dal suo esilio si accorge che tutto, anche il suo ‘Ritorno alla terra’ è avvolto nella Rete del Grande Pescatore. La comunità è dispersa e lei si sente condannata a una solitudine irreparabile.
Il tenero, il duro, il turanico, i farri, le varietà locali e quelle ‘migliorate’ per selezione massale, incrocio e mutagenesi indotta.
Il libro introduce alla conoscenza dei frumenti, attraverso l’osservazione delle loro caratteristiche di forma e delle fasi colturali che ne accompagnano lo sviluppo. Contiene l’elenco e la descrizione sommaria di oltre 400 nomi (e sinonimi) di varietà di grano tenero e duro coltivate in Italia tra la fine del XIX secolo e la metà del XX.
Le piante da frutto guardate come sanno guardarle e riconoscerle i contadini, raccontate con le loro parole, lontano dalle astrazioni e dalle classificazioni di chi le studia ma non vive con loro: questo è il cuore del libro che Federica Riva restituisce dopo una lunga ricerca curata sull’Appennino dove, tra la gente, solidale e partecipe vive e lavora da anni. Qui sta bene ed è rispettoso parlare di ‘antropologia sul campo’, in tutti i sensi.
Una disperata ricerca di autenticità, la nausea verso le relazioni virtuali e la vita sottomessa alla tecnogia, il rifiuto della città, la ribellione contro la ricerca del successo a tutti i costi, la voglia di ritrovarsi e ritrovare un senso nell’altalena del giorno e della notte, della primavera e dell’autunno: questi gli ingredienti dell’ultimo romanzo di Marzia Verona, allevatrice di capre e scrittrice, ambientato tra i monti e nei silenzi dove vive e lavora.
Il canto della fontana ha vinto il premio letterario nazionale “Parole di terra” – IV edizione (2017).
Vagabondando per sentieri di montagna, Emiliano, giovane scrittore in crisi, si lascia guidare dal caso e si stabilisce nel villaggio abbandonato di Vignali, dove l’unico segno di vita è l’incessante gorgogliare di una fontana. Ritrova se stesso e la voglia di scrivere attraverso la natura e il contatto con la terra, mentre il paese torna a rivivere, con un cane, un gatto e alcune capre che lo scelgono come padrone. Ma è ancora possibile vivere in totale isolamento senza compromessi con la ‘civiltà’?
Il libro illustra in modo puntuale e con un linguaggio semplice tutto ciò che c’è da sapere – dalla progettazione alle pratiche ecocompatibili – per diventare giardinieri coscienti e soddisfatti nelle regioni con tanto sole, poca acqua e inverni miti. Rivolto a chi dispone di un giardino o solo di un balcone, ma anche a chi a tutto antepone il desiderio di coltivare l’orto o il frutteto, il libro propone in apertura di ogni capitolo la storia di un grande giardino in clima mediterraneo.
VINCITORE DEL PREMIO NAZIONALE PER TRADUZIONI DA LINGUE SLAVE POLSKI KOT – III edizione, 2017
E io vidi un cavallo giallastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte; e gli veniva dietro l’Inferno. Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra. (Ap. 6,8)
Simile al quarto cavaliere dell’Apocalisse, una legione di fanatici, burocrati e guardie, agli inizi degli anni 1930, condannava alla morte per fame un innumerevole numero – dicono almeno due milioni – di contadini ucraini che non si erano piegati alla collettivizzazione forzata.
È un capitolo della secolare guerra ai contadini – che sotto molte forme non è mai terminata – poco noto in Italia: Vasyl’ lo racconta in questo romanzo, attraverso la storia di una famiglia.
Straordinario affresco del mondo rurale, scritto attraverso le parole quotidiane e le forme espressive del dialetto: lingua quotidiana, da giocolieri, senza limiti, sfrenata, incontenibile, dove il significato delle parole spesso nasce dal loro suono e le parole hanno una forma quasi materiale, quasi fisica. Difficile da riassumere in un solo genere, questo è un libro di narrativa, ma anche di linguistica, antropologia, psicologia del profondo, soprattutto di memoria, ed è un tributo empatico e vissuto al mondo contadino.
che emerge a sorpresa, che determina una coloritura particolare e, soprattutto, è all’origine della musicalità unica del nostro lessico quotidiano.
Siamo parlati da una lingua segreta da cui ereditiamo il carattere, che dà forma al nostro essere al mondo, che è sostanza dei nostri sogni.
Un sorriso triste e operoso degradante sul mare: così la Liguria si presenta allo sguardo di Pino Petruzzelli, che, ascoltando i suoi vignaioli, la percorre da Ventimiglia a Sarzana, risalendo le sue terrazze, come in pellegrinaggio a un sacro monte. E i vignaioli, sguardo divertito e denti stretti, memoria tesa tra passato prossimo e futuro eventuale (maniman), aprono uno spartito costellato di Bianchetta, Ciliegiolo, Cimixià, Granaccia, Lumassina, Ormeasco, Pigato, Rossese, Sciacchetrà, Timorasso, Vermentino, e raccontano, raccontano.
Molto è stato detto e scritto sul vino, sui suoi profumi, sui suoi sentori: Io sono il mio lavoro non parla di questo. Non c’è spazio per profumi di mela verde o pesca o ginestra o banana. L’unico profumo presente è quello della dignità e della bellezza.
Ce l’ho ancora davanti agli occhi quell’immagine: mia moglie con il vestito da sposa bagnato fradicio, in piedi davanti alla vigna, che piange. Ma l’anno dopo fu un’annata straordinaria: raccogliemmo della splendida uva e nacque il nostro primo figlio.
La storia di Kawa, mto di fondazione del popolo Kurdo, racconta del malvagio re Zohak, il primo tiranno, che mentì sul mondo per ridurlo alla sua volontà e ogni giorno nutriva i serpenti che allignavano sulle sue spalle col cervello di due giovani, e del fabbro Kawa, al quale Zohak aveva ucciso tredici figli, che guidò la rivolta contro il tiranno. Il libro è la trascrizione letteraria del mito finora tramandato solo a voce tra i Kurdi, generazione dopo generazione, da un tempo che precede l’orizzonte della memoria collettiva.
Nel segreto di una lapide di epoca “longobarda” affiorano i desideri, le alleanze e le tensioni che animano la vita di una comunità rurale nel corso del XVIII secolo. Il libro racconta un processo di invenzione della tradizione, mostra uno spaccato inedito sulla forma interna delle parentele e la loro ripartizione in segmenti, parla di scritture domestiche, soprannomi collettivi, politiche del prestigio e strategie familiari per l’accesso alle risorse comuni. Nella storia intima di una valle raccontata in un saggio di antropologia storica, un modello innovativo per rileggere la storia locale.
Invenzione letteraria ed elementi biografici s’intrecciano in questo romanzo dedicato a Primo Levi, ambientato negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione di Se questo è un uomo.
Alcuni episodi legati alla vita quotidiana nella fabbrica dove Levi era impiegato come chimico sono l’occasione per fare riemergere l’ombra del lager e, con essa, la necessità, il dovere, ma anche la fatica della testimonianza, della ricostruzione, della comprensione.
Un evento inatteso porterà a riflettere sulla ‘perfezione’ del male e il paradosso del perdono.
Prima traduzione italiana del capolavoro di uno dei giganti della genetica agraria del Novecento, il primo a riconoscere i centri di origine delle piante coltivate e a capire che la conservazione della diversità è essenziale per lo sviluppo dell’agricoltura e la sopravvivenza dell’umanità.
Nelle ricerche di Nikolaj Vavilov trovano fondamento gli attuali studi sulla genetica delle popolazioni e sulla biodiversità agraria.
Dalla Lessinia, regione delle Prealpi veronesi, terra di gente di montagna, arrivano otto racconti che, se ne penetri il cuore, non ti sarà facile dimenticare. I protagonisti sono persone semplici, di paese, e così credibili da fare pensare a fatti di cronaca. I racconti di Otto Wörgl, scritti nel ritmo della prosa lunga (un po’ finto erudita, un po’ finto ingenua, sempre sorridente) si rivelano come piccoli saggi di antropologia della mentalità contadina, dove trovano forma e voce modi di vedere il mondo e ragionamenti che l’autore (che tra la gente di montagna ci vive) conosce bene e bene sa raccontare.
Il mondo contadino in più di 250 ricette.
Attraverso il racconto di un’infanzia trascorsa nella campagna ai piedi dei monti Sibillini, durante gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, e delle ricette che in quel tempo circolavano tra la gente povera di campagna e di paese, questo libro si propone di incoraggiare a riflettere sulla tavola di questo tempo e su noi che oggi mettiamo il cibo al centro della nostra vita, talvolta riproducendo un’immagine gioviale e addomesticata, o persino capovolta, di un passato dal quale abbiamo, però, rimosso la memoria della fame.
Con questa consapevolezza, l’autrice – bambina contadina e testimone che non fa sconti al passato – racconta la cucina contadina tradizionale, descrivendo ciò che sulla tavola c’era e ciò che non c’era (anche quando oggi che ci fosse ci piaccia crederlo): i piatti, le preparazioni e lo spirito e la cultura che permeavano gli uni e le altre.